Il corpo racconta. Anche quello che non diciamo
Oggi ho assistito a una partita di calcio over 40 tra due circoli sportivi della mia città.
Due squadre, due mondi.
Due circoli storicamente frequentati da persone appartenenti a classi sociali molto diverse:
uno conosciuto per accogliere principalmente imprenditori, avvocati, notai.
L’altro, punto di ritrovo per operai, impiegati, artigiani.
Due realtà distinte, pur vivendo nella stessa città.
E già prima del fischio d’inizio, si notava qualcosa di evidente: il corpo.
Nella squadra “popolare”, fisici normali, appesantiti, segnati dall’età e dalla fatica quotidiana.
Nella squadra “benestante”, corpi più asciutti, curati, atletici.
Stessa età. Stesso sport. Ma due modi diversi di abitare il proprio corpo.
E lì è nata una riflessione che porto spesso anche nel mio lavoro di coaching:
quanto il corpo si adatta — o risponde — non solo al tipo di vita che facciamo, ma anche alla classe sociale a cui apparteniamo?
Quanto riflette le possibilità, le abitudini, le priorità… e talvolta perfino ciò che pensiamo di meritare?
Non si tratta di giudicare chi è più o meno in forma.
Ma di riconoscere il corpo come un racconto silenzioso, modellato dal vissuto, dai pensieri, dal contesto in cui siamo immersi.
Chi ha tempo, energie e spazi per sé… spesso lo mostra nel corpo.
Così come chi è abituato alla rinuncia, alla corsa continua, alla fatica, porta tutto questo nel respiro, nella postura, nella presenza.
Nel coaching, il corpo è un alleato potente.
Parla prima della voce. E non mente.
Ci dice se siamo allineati o contratti. Se ci stiamo esprimendo… o contenendo.
Se stiamo occupando il nostro spazio… o ci stiamo facendo piccoli.
Alla fine di quella partita, non ho pensato al risultato.
Ma a quanto, spesso, la forma esteriore racconti quella interiore e il contesto in cui viviamo.
E quanto, se ascoltato con rispetto, il corpo possa diventare una bussola.
Non per essere belli.
Ma per essere veri.
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